Alle cinque post meridiem ogni cosa si ferma
anche il battito del cuore
la storia sul bassorilievo
sopra il camino ed il coro nella plaza de toros,
il millimetrico colloquio
con il sibilo della ragnatela,
lieve movimento asincrono nell'aria.
E dai filamenti del ventaglio,
muraglia di seta e trine,
gocciola un senso di avvinto distacco
nella calura che di nuovo riarde
in queste collassate contrade
nell'ombra sempre più grande
che offusca i passi
in un suono lontanissimo di flauto andino.
Eppure il misurato gesto sacrale del soliloquio
annaspa nel sussulto della posata
nel lento spasimo
di una costola di zucchero sciolta
nel dorato rito puntuale
irrinunciabile odore sorseggiato.
La pioggia fuori, nel mondo,
traspira dalle siepi di gelsomini
come pungolo sevizia lo spazio mentale
più del simbolo dello squarcio improvviso
sulla tela di Fontana.
Ombrelloni,
stalattiti di legno agli aliti di vento
a filari sulle scaglie del sole
e fra elastiche righe di costumi
traversando gli occhi
lo sguardo leggero deviato
dal disordine della calura.
A gocce,
semi d'alberi cresciuti
con la voce della memoria
su antiche fotografie
bikini di un ritratto sbiadito
fra oscillanti andirivieni di onde.
E a destini alterni,
altro viaggio che non muta
fra isole di spiagge,
panorami dal profondo dell'azzurro.
Sempre si parte dal centro della casa,
della mano, dall'odissea dell'architrave
su cui è stampigliata la favola
del primo spiraglio del giorno,
dallo zero del dolore, nel poema della parola
che s'alluce brulicando sull'autostrada
prima dello schianto,
nel travaso di pensieri non pensati.
E sempre si finisce per tornare a Greenwich,
all'origine dell'onda, alla lacrima
del ventre materno, fra le cose
ammonticchiate nel sapore della mente
avvolte nelle spire del suono del cristallo
nel sinuoso piegarsi, fra i giuochi,
del corpo di bimba sulla moquette
alla luce dei fuochi del natale,
sulla stella alta dell'albero
nella casa di Hilde.